Il blu, quello intenso e profondo quasi minaccioso, è dall’altra parte. Al di qua, il verde trasparente invade il bianco morbido della sabbia. A mettere pace tra i due la linea sottile e spumosa delle onde che sbattono sugli scogli, vivi, della barriera corallina.

– “Eh no, Frankie… questa volta la luna può aspettare!”
A completare il quadretto il tronco arcuato delle palme da cocco e le foglie carnose che decorano il paesaggio. Chiudi gli occhi, li apri, li richiudi. Quando li riapri di nuovo ti accorgi che è tutto vero, stacchi le cuffiette proprio mentre Frank Sinatra intona “Fly me to the moon” e pensi che vorresti rimanere per sempre in questa piccola isola dell’Oceano Indiano.
Sono necessarie una decina di ore di volo dall’Italia prima di arrivare alle Maldive e lo spettacolo è concentrato solo negli ultimi trenta minuti. Quando l’aereo si abbassa a cercare l’aeroporto d’arrivo le isole (ognuna protetta dalla propria barriera) appaiono in tutta la loro semplicità: piccoli cerchi di un bel verde brillante che si stagliano nel mare scuro.
Al centro il colore più intenso della vegetazione e attorno la scia bianca delle barche a motore. Man mano che si perde quota attorno ad alcune si nota il sottile ricamo delle passerelle che collegano tra loro le camere overwater. Per altre niente ricami ma tante capannine in riva al mare. Altre ancora, invece, sono spelacchiate, sempre accerchiate dalla laguna ma irrimediabilmente piallate. Insomma, dall’alto sembrano tutte uguali, poi man mano che scendi ti accorgi che, in realtà, ci sono tante Maldive differenti. E soprattutto non esiste solamente la “one-island one-resort”: iperlusso un po’ cafone tutto V.I.P. e calciatori (con velina al seguito).

Esistono anche delle Maldive più “umane”
Esistono anche delle Maldive più “umane” dove per esclusivo si intende solo il colore del mare e quello del cielo, già superlativi anche senza personal butler. Dove gli hotel non hanno le infinity pool di fianco ad ogni water villa. Anche perché, parliamoci chiaro, fa senso fare il bagno in piscina di fronte ad una laguna così limpida e tiepida.
Intendiamoci, il soggiorno in un multi-stelle è -quasi sempre- più gratificante rispetto al soggiorno in una anonima pensione. Le camere più ampie, il design, le ambientazioni curate nei minimi particolari spesso fanno la differenza. Quando non è semplice sfoggio, un hotel di lusso fa già mezza vacanza. Dappertutto. Ma non in questa parte dell’oceano Indiano dove l’unico, vero, Lusso è già a portata di sguardo.

Tantissime isole riunite in atolli.
La minima parte abitate, perlopiù da pescatori. Altre sviluppate solo in funzione del turismo di fascia alta. Tutte le altre disabitate, spesso rigogliose purtroppo in attesa di essere date in gestione a qualche gruppo alberghiero. Alcune, tra le isole abitate, ospitano piccole guesthouse con poche camere semplici ed essenziali come l’ambiente che le circonda. Tra tutti questi gioiellini abbiamo pescato Thinadhoo, nell’atollo di Vaavu. Lunga 800 metri per 200 di larghezza circa 50 abitanti nelle casine vicino al molo con i bambini che giocano a pallone nello spiazzo della Moschea.
Ai lati del microvillaggio di (ormai) ex-pescatori convertiti al turismo si trovano un ristorante, cinque guesthouse e un hotel 3 stelle. Un solo motore su tutta l’isola, un rumoroso generatore per la corrente elettrica. Così scoppiettante, così fastidioso e così indispensabile.
Molo e casette e guesthouse, il ristorante e le biciclettine, i turisti a piedi nudi col generatore in sottofondo sono il piccolo mondo terreno dove passare una vacanza di mare.
Il paradiso si trova 50 metri oltre la prima palma sulla destra.
